1.
Palermo 13 aprile 1906.
La notte scendeva lentamente sulla città. Il cielo, velato da qualche
nuvola, era rischiarato dalla luna e da centinaia di stelle. Era una bellissima
serata siciliana, che preannunciava già l’arrivo dell’estate. Il porto
brulicava di attività. Enormi navi mercantili gettavano l’ancora, in attesa di
carichi di merci da esportare verso paesi lontani. Altre navi salpavano con
centinaia, migliaia di persone a bordo, strette nei loro fagotti polverosi. Uomini,
donne, vecchi, bambini… tutti partivano alla ricerca di una felicità e di una
ricchezza che nelle loro città natie stentavano a trovare. Sui moli si
affaccendavano lavoratori assunti per la singola giornata o per poche
settimane, che si accontentavano di paghe da fame e di orari di lavoro
massacranti. Il vociare di tanti dialetti diversi creava una babele di suoni
che stordiva chi non era abituato a quello spettacolo. Le onde basse si
infrangevano sulle navi arrugginite.
Al molo numero tre era ormeggiata la nave Aurora. Era una nave di media stazza, adibita al trasporto misto di
merci e passeggeri. Era stata costruita nel 1896, negli storici cantieri navali
di Trieste, e poteva trasportare fino a novecento passeggeri, cento in prima
classe e ottocento in seconda classe. Quel giorno era prevista la partenza per
il suo primo lungo viaggio intercontinentale: destinazione Montréal, Canada.
Non era una destinazione comune. Di solito le navi partivano per New York e per
il Sud America. Il Canada era un paese
lontano e freddo. Ma molti dicevano che vi si trovava lavoro più facilmente che
altrove e che la vita costava meno. Gli uomini pensavano soprattutto alle loro
famiglie, affamate e senza prospettive, e ai soldi che avrebbero potuto spedire
subito a chi rimaneva a casa. Molti
pensavano di partire solo per pochi anni, per arricchirsi un po’ e tornare a
casa con i soldi necessari a comprare un pezzo di terra, una casa o un'attività
commerciale.
Sulla banchina era il momento dei saluti. Maria strinse forte il papà
Salvatore. L’uomo era ingobbito e segnato dalle tante ore passate nei campi, a
faticare come un mulo per mantenere le due figlie. Dopo la morte della moglie
Assunta, cinque anni prima, si era come incupito. Viveva a Partinico con le due
figlie, nella piccola casa che si era costruito da solo quando si sentiva
giovane e forte. Maria era sempre stata
la sua figlia prediletta, forse perché era la più piccola e la più dolce delle
due sorelle. Era stata una bellissima bambina e poi, un po' all'improvviso, era
diventata una bella ragazza, come un
fiore che sboccia dalla sera alla mattina. Era una bella ragazza mora,
dai tratti mediterranei e dalle forme morbide e prosperose. Aveva compiuto
venti anni un paio di mesi prima.
“Papa, ti prometto che vi scriverò tutte le settimane,” disse Maria, le
braccia strette intorno al corpo del padre.
Salvatore aveva gli occhi lucidi ma cercò di contenere l’emozione.
“Non preoccuparti per tuo padre, pensa solo a stare bene. E mangia! Non
sciupare il tuo bel viso, capito?” Maria annuì, le lacrime che le rigavano il
volto. I suoi grandi occhi neri sembravano quelli di una bambina smarrita, e
spiccavano sul suo bel viso dalla pelle olivastra. Portava una bella gonna
nera, che le fasciava la vita, e una camicetta bianca di puro cotone, che
lasciava intravedere due seni sodi e piccoli. Portava al collo una catenina che
era stata di Assunta, sua madre, e ora la stringeva forte tra le dita mentre
salutava suo padre. Il crocifisso di sua madre era il suo amuleto porta
fortuna.
Il molo era rischiarato dalla luce lunare. Fu il turno dei saluti con la
sorella Angela. Era una ragazza giovane, di una bellezza meno evidente rispetto
a Maria, il corpo segnato dalle due gravidanze e dalle giornate assolate
trascorse a raccogliere i pomodori nei campi. Angela non aveva mai smesso di faticare, dal giorno in
cui aveva iniziato a lavorare con i genitori, a otto anni. Nessuno della
famiglia poteva permettersi di restare a casa. I bambini erano cresciuti nei
campi assolati, a cavalcioni sulle spalle dei genitori, degli zii, dei nonni e
poi a dormire in dei cesti di vimini poggiati all’ombra di alberi secolari per
ore. Il fine settimana le sorelle aiutavano i genitori a caricare la frutta sui
muli e partivano all’alba per Palermo, dove vendevano i loro raccolti nell’affollatissimo
mercato di Vuccirìa.
“Maria”, sussurrò Angela. “Ascolta i consigli di papà, e ricordati che
noi penseremo sempre a te. Ti vogliamo bene e ci mancherai tantissimo, ma hai
fatto la scelta giusta.” Le sorelle si abbracciarono scoppiando in lacrime.
Dopo la morte della mamma erano diventate ancora più unite. Erano sorelle ma
anche le migliori amiche l’una dell’altra.
“Angela, non so come farò senza di te”, sussurrò Maria, “senza la tua
saggezza...a volte mi sento ancora come la sorellina...”
“Zia! Zia!”, protestarono i bambini. I nipotini di Maria si chiamavano
Rosaria, che aveva quattro anni, e Giuseppe, che aveva appena compiuto due
anni. Tendevano le manine verso Maria, in attesa anche loro di un abbraccio. Era
come una seconda madre per i piccoli. E per Maria, loro erano come dei figli.
Tante volte li aveva accuditi mentre la sorella maggiore era al lavoro, nei
campi, tante volte li aveva imboccati, o presi in braccio e cullati.
“Piccoli miei!” Maria si chinò sui bambini e li abbracciò con foga,
asciugandosi le lacrime con un fazzoletto che aveva tirato fuori dalla borsetta
di cuoio che teneva a tracolla. “Fate i bravi, capito, non fate arrabbiare la
mamma e il nonno,” disse guardandoli negli occhi. Il loro papà era morto di
tifo subito dopo la nascita del piccolo Giuseppe.
I bambini annuirono, seri seri. Maria si alzò, e abbracciò con lo sguardo
la propria famiglia. Non li avrebbe rivisti per tanto, tanto tempo, chissà
quanto… Ma sapeva che doveva farlo. Era l’unica che poteva lasciare l’Italia, e
la sua Sicilia tanto amata, per cercare fortuna con il marito. A Partinico i
raccolti andavano sempre peggio, e lei voleva assicurare un futuro alla sorella
e ai nipoti. E anche il padre meritava una vecchiaia tranquilla, dopo tutto
quello che aveva fatto per loro. Maria era sempre stata una ragazza forte e
coraggiosa, che pensava di poter cambiare il corso delle cose con il suo
entusiasmo e la sua gioia di vivere. Ora toccava a lei fare qualcosa per la
famiglia.
“Maria, sbrigati!” Una mano le afferrò il braccio e la strattonò.
“Dobbiamo salire a bordo, basta con queste sceneggiate!” Maria si ritrovò
a fissare Ettore. Suo marito. Si erano sposati solo sei mesi prima della
partenza, dopo un breve fidanzamento durato un anno. A spingerla tra le braccia
dell’uomo ci aveva pensato suo padre Salvatore. Lo conosceva da quando era un piccirrillo e lo aveva sempre stimato.
Era convinto che fosse uno dei pochi del paese che avrebbe fatto strada. Su
quello Maria sentiva di poter dare ragione al padre. Ettore aveva carattere.
Aveva anche lui una bella carnagione olivastra. Portava dei baffetti neri
sempre molto curati e sulla testa un basco marrone che gli aveva regalato suo
padre prima di morire ammazzato per misteriosi motivi. I tratti del viso erano
decisi, anche se un po’ volgari, e
tradivano una grande determinazione. E ambizione. Non aveva studiato, ma aveva
una gran voglia di riscatto. Figlio unico, i genitori lo avevano sempre viziato.
Suo padre aveva accumulato una grande ricchezza da giovane ma poi
all’improvviso aveva perso tutto in qualche affare azzardato. Qualcuno, ma
erano solo dicerie, aveva parlato di collusione con la malavita locale. La
famiglia aveva fatto letteralmente la fame e Partinico gli aveva voltato le spalle. Per Ettore erano stati anni duri. A soli
dieci anni, era andato a lavorare a Palermo, facendo il facchino, il cameriere,
l’operaio, qualsiasi lavoro trovasse. Si era promesso che un giorno sarebbe
ridiventato ricco. Lontano. “In America
diventerò qualcuno,” ripeteva a tutti.
Ettore salutò con un cenno sbrigativo i parenti della moglie e cominciò a
spingere Maria verso la passerella che collegava la banchina al ponte della
nave Aurora. La passerella era lunga
oltre quindici metri e oscillava sotto il peso delle tante persone che si
stavano imbarcando. Maria si voltò un’ultima volta e agitò la mano verso papà
Salvatore, la sorella Angela e i bambini. Cercò di imprimerseli bene nella
memoria, per farne tesoro nei giorni difficili della traversata. Poi voltò lo
sguardo carico di dolore e seguì suo marito. Si fecero strada tra altri
emigranti che erano nelle loro stesse condizioni. Ognuno di loro lasciava a
terra i propri cari. I visi erano tristi, gli occhi carichi di lacrime
represse.
“E sbrigati!” la incitò ancora una volta Ettore. Avevano due caratteri
diversi. Ettore era sempre scostante, brusco con lei. Non le rivolgeva mai
parole dolci o affettuose. A modo suo le voleva bene, ma non lo sapeva
dimostrare. A Partinico, piuttosto che passare le serate insieme, preferiva
uscire a bere o a giocare a carte con gli amici. Non era mai stato violento,
non aveva mai alzato le mani sui di lei come facevano alcuni uomini, ma sapeva
essere freddo e distante. Maria soffriva per gli atteggiamenti di Ettore, ma stringeva
i denti e si diceva che con il tempo avrebbe trovato dentro di lei l’amore, e
anche il marito avrebbe imparato ad apprezzarla per quello che era. In fondo
conosceva tante amiche che erano scontente del marito e quasi tutte le
raccontavano che poi dentro casa gli uomini diventano più buoni e comprensivi.
Ettore mostrò ad un uomo dell’equipaggio i biglietti che aveva acquistato
mesi prima in una biglietteria di Palermo. Il signore, mezzo sordo, diede
indicazioni sbagliate sul percorso da fare e li spedì nuovamente sul ponte
affollato della nave. Maria guardò in basso, verso il molo. La nave era
altissima e le persone sulla banchina sembravano piccole formiche appiccicate
le une alle altre. Riuscì a distinguere i suoi famigliari. Papà Salvatore aveva
tirato fuori dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto bianco e lo agitava in
aria, come ultima forma di saluto. Maria si avvicinò al parapetto e agitò una
mano per farsi riconoscere. Per un attimo pensò di correre di nuovo sulla
passerella, di scendere da quel mostro d’acciaio per poter abbracciare di nuovo
i cari. Ettore però continuava a spingerla, a tirarla con poca grazia. Aveva
fretta, come sempre, e non ammetteva esitazioni dettate dall'emozione.
“Ettore, ti prego, così mi fai male…” provò a protestare. L’uomo si fermò
e le ringhiò addosso: “Dobbiamo ancora sistemarci nella cabina, ti vuoi
sbrigare o no? Tra meno di mezz’ora questa nave salperà, chiaro?”
“Va bene, va bene…” Maria lo seguì, docile. Tanto valeva seguirlo senza
fare troppe storie. I suoi cari erano sempre li, che si sbracciavano per darle
un ultimo saluto. Non li avrebbe rivisti per tanto, troppo tempo.
“Addio,” mormorò Maria.
“Per la seconda classe?”, chiese Ettore ad un anziano marinaio sommerso
dalle richieste dei passeggeri. L’uomo, strattonato da più parti, rispose
sgarbato: “Dovete scendere al ponte inferiore, da quella parte.”
“Andiamo,” disse Ettore alla moglie. La gente si accalcava, c’erano altre
ottocento persone dirette al ponte della seconda classe. Era la classe dei
poveri, di chi partiva con pochi averi nella valigia e tanti sogni nella testa…
Mentre scendevano le scalette ripide che portavano al ponte inferiore, Ettore
chiamò qualcuno a gran voce: “Sandro! Sandro!”
Un uomo sui trentacinque anni si voltò, guardò tra i volti e riconobbe
quello di Ettore.
“Ettore! Che bella sorpresa! Ti avevo cercato al molo ma non ti avevo
visto, c’era una tale confusione…” Si fece largo tra i tanti passeggeri e
raggiunse Maria ed Ettore. Maria lo guardò bene in viso e lo riconobbe. Era un
bracciante che abitava in un paese vicino a Partinico. Faceva parte del gruppo
di amici di Ettore. Quando il marito usciva con lui tornava sempre tardi,
spesso ubriaco e di cattivo umore.
“Ettore, ho sentito che ti sei appena sposato…questa è tua moglie, vero?”
Sandro la guardò per qualche secondo di troppo, come se apprezzasse le forme
della ragazza sotto i vestiti semplici. Maria abbassò lo sguardo. Avrebbe
voluto trovarsi nella cabina, per riposare un po’, stare da sola, riflettere.
“Si…Senti Maria,” proseguì Ettore, “aspettami nella cabina. Porta la tua
valigia, alla mia ci penso io.”
“Ma tu dove vai? Non so neanche dove sia la nostra cabina…”
“Quante storie! Siamo su una nave, basta chiedere in giro. Io devo
parlare un po’ di cose importanti con Sandro, ci vediamo dopo.”
“Arrivederci signora,” disse Sandro togliendosi la coppola, come si usava
fare all’epoca.
“Arrivederci,” rispose Maria. Guardò i due uomini che si allontanavano,
dandosi pacche sulle spalle e ridendo. Si ritrovò sola, sulla nave, in mezzo a
centinaia di estranei. Aveva una valigia pesante da trasportare e si sentiva stanca come non mai. I
passeggeri la strattonavano perché camminava lentamente. Maria si fermò e si
asciugò le lacrime con un fazzoletto. Si fece coraggio e continuò a scendere
gli scalini, diretta al suo ponte.
Le cabine sembravano tutte uguali. Le porte erano nere e su ognuna c’era
una piccola targa che ne indicava il numero. Aveva provato di nuovo a chiedere indicazioni agli uomini
dell’equipaggio, ma in cambio aveva ricevuto solo occhiatacce e insulti. Ognuno
pensava a se stesso, nessuno si curava di lei. Erano i momenti concitati prima
della partenza. I piedi cominciarono a farle male e Maria si fermò in un
corridoio poco affollato. Si sedette sulla sua valigia perché non sapeva più
dove andare. Pensò a sua madre e a quello che le avrebbe detto in un momento
simile. “Coraggio, stellina mia, non piangere…” Maria strinse tra le dite la
catenina e si asciugò nuovamente le lacrime. Rimase qualche minuto seduta, a
guardare i passeggeri che urlavano e correvano.
Intanto i preparativi per la partenza erano terminati, tutti i passeggeri
erano saliti a bordo e le merci erano state sistemate nella grande stiva della
nave, stipate in container arrugginiti. I membri dell’equipaggio stavano
mollando gli ormeggi e, in quel preciso istante, un suono metallico indicò che
l’ancora si era staccata dal fondale marino del porto. Le maglie della catena
che reggevano l’ancora erano grandi come il corpo di un uomo. La notte
avvolgeva ogni cosa, e l’Aurora si
preparò con abili manovre alla lunga traversata. Le ancore furono sganciate
alle ventidue e trenta precise e la nave si allontanò lentamente dalla
banchina.
Maria si alzò, scoraggiata. Guardò ancora una volta il biglietto, ma non
riuscì a decifrare quelle lettere minuscole e quei numeri messi accanto. Sapeva
leggere ma non aveva mai imparato a leggere bene i numeri. Era già tanto che le avessero
insegnato a leggere, con tutto il lavoro che c’era da fare. Pochissime donne,
pochissime ragazze della sua età sapevano leggere. Nelle zone rurali il livello
d’analfabetismo era molto alto, visto che l’istruzione richiedeva tempo e
denaro e loro non avevano né l’uno né l’altro. Ora lei era sicuramente in seconda classe ma sul
biglietto non riusciva a capire quale fosse la scritta che indicava il numero
della sua cabina. Il flusso di passeggeri continuava a passarle davanti e una
mamma cullava il suo bambino piccolo proprio di fronte a lei. Maria le sorrise
e poi guardò per l’ennesimo volta il foglio che aveva in mano
“Le serve aiuto?”
“Come scusi?” Maria alzò lo sguardo. Si trovò di fronte un ragazzo
giovane e carino. Era alto almeno un metro e ottanta, aveva un fisico asciutto
e un viso regolare, bello, solare. Da sotto il cappello grigio e floscio fuoriusciva
una massa di capelli mori e ricci. Gli occhi erano di un blu profondo.
“Ho visto che stava guardando il biglietto, e so quanto sia difficile
decifrare tutte quelle scritte,” spiegò il giovane.
Maria si rese conto che stava fissando quegli occhi blu da troppo tempo.
Distolse lo sguardo e porse al ragazzo il foglio di carta.
“Ha ragione, non riesco a trovare la mia cabina. Non è che non so
leggere… E’ che… non è facile, in mezzo a tutta questa confusione,” proseguì.
“Potrebbe gentilmente aiutarmi?”
“Come si chiama?” chiese il ragazzo prendendo il biglietto.
“Maria…”
“Piacere, io mi chiamo Giovanni. Giovanni Floridia. E mi dia del tu, se
vuole!”
“Oh, grazie”, rispose Maria, guardano il bell’uomo che ora tentava di
decifrare il biglietto.
“Vediamo un po’, cabina B34…dovrebbe essere più avanti, poi a sinistra,
poi ancora…” Giovanni si accorse che Maria seguiva con apprensione le sue
istruzioni. “Facciamo così, ti accompagno io, va bene?”
“Ma no, sarebbe troppo disturbo…”
“Ma no, quale disturbo, mi fa piacere. Dammi, la valigia che la porto io.
Sembra pesante, anzi, è proprio pesante.”
“Non devi,” provò a protestare lei, ma il ragazzo fu più veloce. Afferrò
il bagaglio e si avviò a passi decisi.
“Allora Maria, viaggi da sola?”
“No, con mio marito.” Maria faticava a tenere il passo di Giovanni.
Camminava spedito e ogni tanto si voltava e le sorrideva.
“Ah bene”, sentenziò, “una ragazza così giovane non dovrebbe mai
affrontare da sola dei viaggi così lunghi.” La voce di Giovanni era calda e
allo stesso tempo squillante. Trasmetteva sicurezza e forza d’animo. Maria
aveva riacquistato un certo ottimismo.
“E’ molto lontana la cabina?”, domandò.
“Ma no, siamo quasi arrivati. Ecco, questa è il corridoio B e qui c’è la…
B11... Stiamo andando nella direzione giusta.”
“Non capisco proprio come fai ad orientarti così bene. Viaggi spesso
sulle navi? A me questi corridoi mi sembrano tutti uguali...”
“Io? E’ la prima volta anche per me. All’inizio si è disorientati, ma
basta un po’ di pazienza e di spirito d’osservazione. Eccoci, questa è la tua
cabina. Vedi? E' stato facile. ” Giovanni si fermò davanti alla porta di una cabina.
Sul metallo bianco c’era attaccata una targhetta di ottone: B34,
recitava.
“Grazie, grazie tante. Non so proprio come avrei fatto senza il tuo aiuto.”
“E’ stato un piacere, Maria.” I due si fissarono negli occhi. Maria fu la
prima a distogliere lo sguardo.
“Grazie ancora Giovanni, ora devo andare a sistemare le mie cose. Tra
poco tornerà mio marito, e vorrei fargli trovare tutto pronto.”
“Certo. Buon viaggio allora! Sono sicuro che ci incontreremo ancora.”
Giovanni s’inchinò e le fece un grande sorriso, uno di quei sorrisi che
riscaldano il cuore. Maria ricambiò il sorriso, poi Giovanni si voltò e
proseguì per la sua strada. Camminava spedito, con lunghe falcate. Lei pensò
subito che si era trattato di un bell’incontro, soprattutto dopo il dolore per
il distacco dai famigliari e le parole rudi che le aveva rivolto Ettore. Chissà
se lo avrebbe rivisto. La nave era talmente grande e affollata…
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